Recensione di Joyland, di Stephen King

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Bentornato Maestro. Che altro posso dire dopo aver letto Joyland? Mai azzeccai di più spesa istantanea. Trovarsi davanti ad un romanzo come questo dà soddisfazione, e non fa di certo rimpiangere di essersi concessi una spesa pazza. Vogliamo chiamarlo horror soft? Facciamolo pure. Ma definiamolo per quello che è: un buon libro.

Ora, voi sapete quanto ami Stephen King dal profondo. Ma la produzione dei primi anni del 2000, tolta la saga della Torre nera che è un vero capolavoro e tranne qualche eccezione come Duma Key o The Cell, ha lasciato a desiderare. E deve ammetterlo anche chi lo scrittore lo venera. Joyland è di un’altra pasta. Totalmente. Vuoi perché lo scrittore ritorna agli anni ’70, un periodo particolarmente amato da lui (ed è evidente in diverse opere, N.d.R.), vuoi perché parlando di fantasmi è sempre stato fortemente credibile (non posso fare a meno di pensare a Mucchio d’ossa, N.d.R.) ma sembra proprio che sia tornato su un terreno a lui congeniale. In una visione romantica del suo operato potrei dire che il “vettore” ha fatto in modo che la storia di Joyland defluisse tramite lui sul foglio. Più prosaicamente parlando e per tutti, anche coloro che non sono lettori del Re, posso dire che protagonisti e storia si intrecciano in modo perfetto.

In più l’ambientazione non è del tutto nuova a Stephen King se pensiamo in parte ai suoi libri con Peter Straub. Insomma, da qualsiasi punto di vista Joyland venga visto, sembra in qualche modo cogliere il meglio dell’autore. Io l’ho praticamente divorato e lo dimostra l’arrivo della recensione a così stretto giro di uscita. E’ stato facile, perché è stato quasi come accogliere dentro casa un amico che da tempo non vedevo. Sono una purista di Stephen King e per questo uno dei suoi peggiori critici, se possibile. Trama, linguaggio, stile e ritmo: un quartetto che non delude assolutamente.  Se lo consiglio? Assolutamente sì. Devin Jones e la sua “cricca” devono essere conosciuti da tutti.

 

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