Il quaderno ungherese di Anne-Marie Garat

Il quaderno ungherese di Anne-Marie Garat è quello che si definisce un romanzone e non solo per le quasi mille pagine di cui è composto, ma per il modo in cui la vicenda della protagonista viene narrata.

E’ il 1913, siamo a Parigi. Gabrielle Demachy è innamorata di un uomo, Endre Luckácz, eternamente in viaggio per motivi che lei non comprende completamente. Quando le viene annunciata la morte di lui e le vengono consegnati il baule con una parte del bagaglio, Gabrielle intuisce che qualcosa non quadra e decide di intraprendere una sorta di indagine per far luce sulla vicenda.

Da quel momento l’acuta e testarda protagonista vedrà cambiare i rapporti con la sua più cara amica, Dora, entrerà in contatto con la famiglia che forse custodisce il segreto della morte di Endre, incontrerà un uomo tanto colto e affascinante quanto misterioso, Paul Galay, e stringerà un forte legame con una bambina che sarà determinante nella sua storia.

Quella che sembra una lunga storia d’amore si trasformerà però pagina dopo pagina in un vero e proprio giallo, con tanto di spie, omicidi, formule letali e sullo sfondo assisteremo, avendolo già previsto perché conosciamo la storia, al dispiegarsi degli eventi che porteranno alla prima guerra mondiale.

Il quaderno ungherese piacerà sicuramente a chi cerca un libro che tenga compagnia per molte settimane, ma anche a chi ama molto le descrizioni sia degli ambienti che dei personaggi e talvolta persino delle emozioni degli stessi.

Io l’ho trovato molto bello in alcuni passi, noioso in altri (saltateli pure, direbbe Pennac), avvincente, commovente. Insomma, offre ad ogni lettore un appiglio per procedere nella lettura. Certo, non corre via veloce, come il romanzo fiume di Milli Dandolo, Croce e delizia, però vale la pena lasciarsene tentare.

Sophie si era tirata su, gli occhi umidi brillavano e il viso confuso irradiava una gioia terribile. Nella sua debolezza, sembrava così forte, così trionfante che Gabrielle ebbe paura. Ma no, non straparlava, non delirava. Era solo colma di una felicità smisurata, accentuata dalla sofferenza del corpo ferito, e ogni livido proclamava la sua vittoria sulla fatalità sconfitta. Non era una creatura malvagia, una madre snaturata, ma una donna spinta alla disperazione, all’angoscia impotente di essere solo la genitrice oppressa da gravidanze che tutti volevano, e alla quale la sua rivolta cieca dava ragione.

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