Sophie Jordan, Firelight e le paure del nuovo millennio

Jacinda è una mutaforma, discendente dei draghi. La sua vita cambierà quando lei e la sua famiglia si rifugeranno tra i mortali e la loro strada incrocerà quella dei cacciatori. Tra di loro, uno per cui Jacinda proverà sentimenti inattesi e che, naturalmente, la metteranno in pericolo.

Esce nelle librerie il 5 gennaio, per Piemme, Firelight, primo capitolo della trilogia Urban Fantasy realizzata dalla scrittrice statunitense Sophie Jordan, specializzata in narrativa Young Adults.

Premetto che sono un’amante del genere Fantasy, sia del classico (Il signore degli anelli, Elric di Melnibonè) sia delle nuove declinazioni urban e young adults (mi sono piaciuti molto Starcrossed e Sono nel tuo sogno).

Ultimamente, però, non posso non notare un incremento notevole di storie d’amore fantasy, in cui ci sono angeli, demoni, draghi, vampiri. I personaggi mutano forma, si sento persi (come molti degli adolescenti, naturalmente), cercano l’amore ma al tempo stesso lo combattono. Distruggono e recuperano i rapporti familiari.

Apparentemente niente di nuovo, se consideriamo che gli scrittori si rivolgono ad una fascia d’età piuttosto giovane. Eppure, da lettrice, non da studiosa, mi sono chiesta: è cambiato qualcosa tra i giovani lettori di adesso e quelli degli anni sessanta?

Ho come la sensazione che la fantascienza e il fantasy tipici dell’epoca presentassero spesso il tema dell’esplorazione, di nuovi mondi da vedere, da conquistare. Ora, sempre più spesso, i protagonisti si muovono nel passato più che nel futuro.

In un’epoca di vampiri gentiluomini si è in fondo più al sicuro che in un futuro sconosciuto e terribile, verso cui ci si sente inermi. Una volta il sogno è andare sulla luna. Oggi la fantascienza ci racconta che non servirà a niente, che questo non amplierà i nostri orizzonti.

Se partiremo sarà perché abbiamo alle spalle una catastrofe ambientale. Se resteremo, il mondo sarà diviso in livelli, la maggior parte dei quali poverissimi. Meglio il passato allora, meglio mutare forma quando serve.

O forse, semplicemente, come suggerisce Woody Allen in Midnight in Paris, che si rivolgeva sicuramente a me mentre scriveva la sceneggiatura, il problema è solo nella mia testa, nostalgica e fuori dal presente, come al solito. Non mi resta che mutare forma.

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