Paul Auster, il Purgatorio e un’intervista

Paul Auster, come Philip Roth, è uno di quegli autori che ammiro moltissimo e di cui riconosco la maestria, ma cui non riesco ad appassionarmi. Lo trovo, come uomo, affascinante e la sua scrittura, in qualche modo, è proprio il genere di scrittura che amo, ma ahimè il mio cuore non cede di fronte ai suoi scritti.

Poiché sono una lettrice testarda, anni fa mi sono recata in biblioteca e ho preso in prestito quasi tutti i suoi romanzi e me li sono letti, prendendo appunti e cercando, inutilmente, tra i miei amici, qualcuno che avesse tra gli scaffali almeno uno solo di questi tomi, per potermi confrontare.

Ad ogni modo, visto che non riuscivo ad innamorarmi, ad un certo punto ho troncato questa relazione senza sbocchi e mi sono fermata proprio prima dell’uscita di Follie di Brooklyn, edito in Italia da Einaudi.

Poi, assolutamente per caso, mi sono ritrovata tra le mani un volumetto edito da Leconte. Si tratta di un estratto del romanzo Follie di Brooklyn, tradotto da Massimo Bocchiola, intitolato Purgatory. Il volumetto oltre ad avere il testo originale a fronte, come da tradizione “lecontiana”, è corredato da un’intervista di Mary Morris allo stesso Paul Auster.

Come lettrice, onestamente, non amo molto gli estratti dei romanzi e non ne capisco molto il senso. In questo caso però l’accoppiata estratto/intervista funziona, perché ci consente di fare continui rimandi tra i due e di comprendere meglio le risposte dello scrittore alla collega Morris.

Se siete appassionati di Auster o anche solo curiosi, l’intervista vi piacerà davvero, perché Auster parla non solo del suo romanzo, ma del processo creativo che lo precede, della crisi del foglio bianco e anche della sua esperienza cinematografica con Smoke, Blue in the face e Lulu on the bridge. A tutti gli altri, i perplessi, come la sottoscritta, consiglio di lasciar passare qualche anno e riprendere la relazione in tempi più propizi (in primavera, ci riproverò).

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