Teutoburgo di Valerio Massimo Manfredi, recensione

Valerio Massimo Manfredi o lo si odia o lo si ama. Per una che non lo ama particolarmente ma ne riconosce la grandiosità nel riportare fatti storici in modo romanzato, va detto che la lettura di “Teutoburgo” in finale non è stata sconvolgente in senso negativo.

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Se c’è una cosa della quale non si può accusare Valerio Massimo Manfredi è quella di non essere un bravo scrittore storico. Tenta infatti il più possibile di rimanere legato ai fatti ed alle reali condizioni dei tempi. Quando si occupa degli antichi Romani, va detto, l’impronta è valida e lo stile scorrevole come pochi. E’ uno scrittore che ama il suo lavoro e raccontare determinati periodi storici e si vede. La storia è quella di due fratelli tedeschi, figli del re Sigmer che, una volta catturati, vengono inviati a Roma da comandante della truppa romana che li ha presi in ostaggio, per essere “educati”: dovranno diventare due romani. Wulf ed Armin (questi i loro nomi, N.d.R.) diventano Flavus e Arminius.

E da qui per i due fratelli si dirameranno due percorsi fatti di scelte, a volte condivise a volte no, che li porteranno a vedere cose grandiose ed a decidere del proprio destino. Ed è interessante avere a che fare con questa parte della storia. Perché è possibile vivere come se accadesse in questo momento la scelta dei due fratelli e contemporaneamente godere della capacità dello scrittore, di raccontare in modo lineare e semplice qualcosa che non lo è di base. Un libro consigliato.

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