Il gioco di Gerald, di Stephen King: recensione

Il gioco di Gerald è stato senza dubbio uno dei romanzi maggiormente sopravvalutati di Stephen King. Legato in qualche modo (non vi anticipo quale) ad altri romanzi dello scrittore come Dolores Claiborne, incentrati sulla fenomenologia dell’eclisse, questa storia purtroppo anche se ben scritta, non mantiene le premesse delle sue prime pagine.

Non perché di per se stessa la storia non abbia l’appeal necessario, ma perché nel passare dal presente al passato, in un continuo gioco di ricordi e connessioni, l’attenzione non riesce a rimanere focalizzata a lungo, e almeno per ciò che mi riguarda, tutto quello che rimane dopo aver letto una storia come questa è una sorta di frustrazione che non accade con gli altri libri del ciclo.

La parte più stupida dell’intera questione letteraria è forse la morte di Gerald, il marito della donna protagonista, così malsana e stupida nella sua interezza che ci si arriva a chiedersi anche il perché della scelta di questo titolo. In fin dei conti il “gioco” in questa storia non è di Gerald, che poverino, fa decisamente una pessima comparsata nella trama, ma di Jessie Mahout e del folle che sembra pronto ad attentare alla sua vita.

E’ da apprezzare però il fine gioco psicologico che l’autore affronta, anche se non perfettamente riuscito come  in altri casi. La parte più importante della narrazione è composta dal dialogo mentale della donna con Ruth, una sua conoscente che in passato l’ha portata a far riemergere l’esperienza  avuta con il padre, di tipo sessuale. Un approccio decisamente da carcere per l’uomo, che  la ragazza riesce a sublimare i n parte sono una volta adulta ed appieno solo grazie a questa tragica esperienza.

Non dobbiamo dimenticare infatti che nel corso dell’intera narrazione Jessie è ammanettata senza speranza a letto, con il marito morto a terra ed un terribile killer nella stanza.

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