La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio

Non vogliatemene, lettori di Libri e Bit, per questa associazione così banale e scontata tra il clima che ci circonda in questi giorni e la classicissima poesia di D’Annunzio, La pioggia nel pineto. In fondo sono proprio queste associazioni, questi ricordi improvvisi, a consentirci di riscoprire in modo diverso quei versi che male abbiamo sopportato durante gli anni del liceo.

Perché io, ad esempio, questo componimento del 1902, presente nella raccolta Alcyione, non l’ho mai amato come non ho mai amato D’Annunzio. Eppure a suo tempo l’ho dovuto imparare tutto a memoria e deambulavo per casa ripetendolo ad alta voce decine di volte, perché prima o poi mi sarebbe toccato ripeterlo davanti all’intera classe.

Continuo, ad essere sincera, a non amare D’Annunzio. Tuttavia, dopo aver ascoltato il video che vi ho proposto oggi, sono sempre più convinta che a scuola la poesia sia insegnata in modo pessimo. D’altronde, la si può davvero insegnare?

Possiamo apprendere le tecniche, imparare a riconoscere gli artifici letterari, approfondire l’importanza di un dato poeta e delle sua capacità innovativa, ma amare i versi poetici, ascoltarli, lasciare che ci inondino di suggestioni, emozioni, muovi pensieri, intuizioni, quello è un altro paio di maniche.

Se avete avuto insegnanti speciali, che hanno saputo condurvi, come dire, sulla retta via poetica, vi va di raccontarci come lo hanno fatto e se a distanza di anni il loro insegnamento ha continuato ad influenzarvi?

La pioggia nel pineto

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo, e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce dal mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

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